domenica 20 ottobre 2013

Consumo consapevole, etica e salute nel nostro armadio





Il nostro guardaroba contiene gli abiti che ogni giorno scegliamo per vestirci, ma sappiamo realmente cosa c’è nel nostro guardaroba? Sappiamo da dove arrivano, di che materiali sono fatti e quale processo di lavorazione hanno subìto i nostri abiti? E’ strano che, da un punto di vista salutistico, facciamo attenzione a quello che mangiamo, ma non a quello che mettiamo sulla nostra pelle! Forse perché consideriamo più importante quello che mettiamo “dentro” il nostro corpo che non quello che mettiamo “fuori”, anche se a contatto con la nostra pelle. Eppure la pelle è un organo molto importante del nostro corpo, è il nostro organo più esteso, la prima barriera di difesa contro potenziali agenti patogeni, regola la nostra temperatura corporea, la dispersione idrica e produce la vitamina D, che permette di fissare il calcio nelle ossa. La pelle è come una spugna, assorbe le sostanze con le quali viene a contatto, pensiamo ai cerotti curativi che vengono utilizzati appunto per far assorbire gradualmente attraverso la pelle un determinato medicinale. Questo assorbimento da parte della nostra pelle avviene sia che si tratti di sostanze benefiche che di sostanze nocive, perciò se i tessuti che vengono a contatto con la pelle contengono sostanze irritanti e tossiche, la pelle le assorbirà trasferendole al nostro corpo.


Generalmente non ci pensiamo, ma ogni capo di abbigliamento, prima di arrivare nel nostro armadio, è passato attraverso lunghe lavorazioni effettuate con prodotti chimici come coloranti, candeggianti, fissatori, antimacchia, antimuffa, fungicidi e molti altri. I numerosi residui di queste sostanze che si trovano nei nostri vestiti possono provocare irritazioni, allergie e possono anche intossicare l’intero organismo. Le dermatiti allergiche sono sempre più in aumento e vari studi scientifici hanno dimostrato che la maggior parte di queste dermatiti sono causate dalle sostanze chimiche utilizzate soprattutto nella fase di tintura dei tessuti. In Europa molte di queste sostanze sono state proibite, in quanto cancerogene, ma sono ancora utilizzate nei Paesi più poveri, soprattutto asiatici, dove le leggi per l’uso di sostanze tossiche non esistono o vengono ignorate. Comunque anche in Europa e in Italia vengono ancora utilizzate sostanze chimiche per le quali esiste “solo” il sospetto di pericolosità ed inoltre molte aziende, anche italiane, delocalizzano alcune fasi di lavorazione proprio nei Paesi come la Cina, l’India o il Bangladesh, dove la manodopera costa poco, senza controllare che siano rispettati i parametri europei sulle sostanze chimiche.  


Il ciclo produttivo degli indumenti è un percorso lungo ed articolato che ha inizio con la materia prima , la fibra tessile che può essere naturale – vegetale o animale - o artificiale o sintetica.


Tra le fibre vegetali quella più utilizzata è il cotone, che viene ricavato dalle piante del genere Gossypium, coltivate perlopiù in maniera intensiva, in monocultura (pratica che utilizza lo stesso terreno, ripetutamente anno dopo anno e che provoca l’impoverimento del terreno) e con ampio uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. Queste sostanze nocive penetrano nei terreni ed inquinano le falde acquifere e fanno ammalare seriamente milioni di contadini dei Paesi più poveri. Purtroppo il cotone biologico, non OGM e coltivato senza uso di sostanze chimiche di sintesi rappresenta solamente una minuscola percentuale della produzione mondiale. 
Il lino, la canapa e la juta, a differenza del cotone,  sono ricavate da piante molto più resistenti ai parassiti che richiedono quindi pochissimi pesticidi e che necessitano di poco apporto idrico, risultando quindi coltivazioni con un basso impatto ambientale.


Tra le fibre naturali animali la più utilizzata è sicuramente la lana, ottenuta dal vello delle pecore e di altri animali. Purtroppo gli animali dai quali si ricava la lana vivono una vita dura, sottoposti a tosatura in tutte le stagioni (spesso meccanica e che provoca dolorose escoriazioni) e lasciati poi esposti alle intemperie senza la protezione del loro pelo e sottoposti a pratiche crudeli come il mulesing.
Altra fibra animale che comporta crudeltà è la seta, estratta dai bozzoli realizzati dai bachi del gelso, sottoponendoli a stufatura, trattamento che uccide l’insetto racchiuso all’interno del bozzolo tramite vapore d’acqua a 80°. L’unica seta prodotta senza crudeltà è quella denominata “buretta” indiana che deriva dalle prime secrezioni del baco, prima che formi il bozzolo, oppure da bozzoli già sfarfallati ed è  quindi ottenuta senza l’uccisione del povero insetto.


Ci sono poi le fibre artificiali, tra cui la viscosa e l’acetato, prodotte dall’uomo a partire da polimeri di origine naturali, che sono il risultato di un processo industriale che richiede l’impiego di sostanze inquinanti e pericolose, con conseguenti problemi ecologici.


Altre fibre prodotte dall’uomo sono le fibre sintetiche, tra cui il poliammide (nylon), il poliestere e l’elastan,  prodotte a partire da polimeri di sintesi. Queste fibre sono molto utilizzate per la confezione di abiti, in genere mischiate a fibre naturali per ottenere tessuti morbidi e molto resistenti. Il poliestere ad esempio è la fibra più utilizzata in assoluto e può essere ricavato dalla trasformazione della plastica Pet (le bottiglie dell’acqua) ottenendo il pile e riciclando così un materiale di scarto che verrebbe altrimenti disperso nell’ambiente o accumulato nelle già straripanti discariche.


Proseguendo nell’esaminare il ciclo produttivo degli indumenti, sappiamo ovviamente che dalle fibre si deve ottenere il filato, dal quale realizzare poi il tessuto e successivamente il capo di abbigliamento. Quindi, a prescindere dal tipo di fibra del quale è composto il nostro abito, prima della sua realizzazione dovranno verificarsi tutta una serie di passaggi e lavorazioni ed è proprio in queste fasi che verranno usate le sostanze chimiche che potrebbero entrare in contatto con la nostra pelle. 


Le fibre naturali, prima della filatura, sono sottoposte a lavaggi con particolari sostanze chimiche per eliminare le impurità e spesso, come nel caso della lana, trattate con candeggianti. A questo punto si procede alla filatura che trasforma le fibre in un unico filo avvolto in una matassa.


Una volta formato il filato si procede alla tessitura, ma prima di questa il filato viene impregnato di ulteriori sostanze che servono a far scorrere bene i fili sul telaio. Il tessuto così creato dovrà poi passare alla fase successiva che è quella della tintura, ma prima andrà lavato con sostanze particolari come acidi e candeggianti per eliminare le sostanze con le quali i filati erano stati impregnati per scorrere meglio.


La tintura è la fase più delicata di tutto il processo produttivo, è il processo più pericoloso per la salute dei lavoratori, il più inquinante per l’ambiente e quello che lascia più residui nocivi sull’abito che indosseremo. L’operazione di tintura viene effettuata con immersione del tessuto o della matassa di filo in un bagno colorato ottenuto con prodotti chimici. Oltre al colorante chimico vero e proprio, vengono utilizzate anche altre sostanze che servono a migliorare l’assorbimento del colore ed a fissarlo. Tutti questi prodotti impiegati sono tossici e provocano seri danni alle persone che lavorano a contatto con essi ogni giorno, all’ambiente ed a noi consumatori perché i residui rimasti sul capo che indosseremo possono continuare a rilasciare sostanze pericolose.


L’ultima fase di realizzazione del tessuto prevede una serie di lavorazioni che servono a modificare l’aspetto ed il tatto del tessuto e determinano come si comporterà nelle varie situazioni alle quali sarà sottoposto. Vengono quindi applicate soluzioni chimiche antimacchia, antipiega, antifiamma, antimuffa, antibatteriche ed altro ancora.


Quindi, durante tutto il ciclo di lavorazione, il nostro indumento è stato trattato con un’infinità di miscele composte da acidi e coloranti vari potenzialmente nocivi ed irritanti, fortemente sospettati di avere effetti cancerogeni.


Purtroppo anche gli indumenti per i più piccoli subiscono gli stessi trattamenti e la pelle di un individuo ancora in fase di crescita è sicuramente più delicata e più vulnerabile. Infatti nei bambini piccoli sono frequenti le reazioni cutanee, come arrossamenti, irritazioni e anche eczemi, spesso attribuite ad altri motivi, come intolleranze alimentari, ma che in realtà potrebbero essere ricondotte all’utilizzo di un certo indumento e non per allergia personale ma per le sostanze in esso contenute.


Ovviamente se i residui di sostanze tossiche contenute negli abiti possono far male a chi li indossa, sicuramente fanno male a chi li produce, operai che lavorano in nero, sottopagati e senza tutele nelle fabbriche dell’Asia o dell’Africa, dove la tutela del lavoro, la prevenzione e la sicurezza sono completamente ignorate. La maggior parte della forza lavoro nel settore tessile è femminile, donne pagate pochissimo, che lavorano con orari estenuanti, che subiscono ogni tipo di sopruso e che, pur di guadagnare qualcosa per sfamare la famiglia, sono disposte a sottostare a regole imposte da datori di lavoro che ignorano i più elementari diritti umani, prima ancora che sindacali, mettendo a rischio gravemente la loro salute e la loro sicurezza. In Paesi come la Cina, il Bangladesh, l’Indonesia e l’India il salario medio di un lavoratore è di circa due dollari al giorno per otto ore di lavoro, ma le ore di lavoro sono generalmente 12 e anche 14 e non certo pagate come straordinari!  


Queste storie di sfruttamento, non sono solo legate alla produzione di abbigliamento economico, ma riguardano anche i grandi marchi occidentali che hanno esternalizzato la loro produzione proprio nei Paesi poveri per risparmiare sui costi e fingono di non sapere a cosa sia dovuto quel risparmio. E’ quindi molto probabile che almeno il 90% di quello che abbiamo nel nostro armadio sia stato prodotto attraverso queste storie di sfruttamento in quanto nel mercato globale le lavorazioni di un indumento si svolgono in più continenti.


La questione ambientale è un altro terribile risvolto dell’industria tessile. Questo è un argomento di così vasta portata che andrebbe certo trattato in maniera più approfondita, ma basti sapere che Paesi come la Cina stanno inquinando massicciamente acqua, suolo ed aria con polveri e veleni di ogni tipo.


Ma fortunatamente esistono delle alternative per chi vuole passare ad un consumo più consapevole e responsabile … l’abbigliamento eco compatibile, biologico, equo e solidale, la moda etica, la cosiddetta “critical fashion”.


La prima regola per avere un guardaroba sano ed etico è comprare meno abiti. Spesso per “amore” dello shopping acquistiamo compulsivamente capi di abbigliamento, di qualità scadente, che non ci servono e che magari indosseremo solo poche volte prima di sostituirli con altri acquistati con  uguale frenesia. Dovremmo anche tenere in considerazione il baratto, molto affermato all’estero,  l’acquisto di abiti usati nei “charity shop” (circuiti di stampo inglese gestiti da organizzazioni di volontariato per finanziare progetti umanitari) ed anche il riuso di abiti scovati nel fondo del nostro armadio, magari reinventati e rivisitati con un po’ di fantasia e creatività. Ed infine quello che proprio ci occorre e non possiamo fare a meno di acquistare, acquistiamolo lontani dalle grandi firme e dalla produzione in serie, rivolgendoci al biologico, al mercato equo e solidale ed alla moda etica, che produce abiti belli e di qualità ideati da giovani creativi indipendenti che prestano attenzione non solo alle tendenze della moda ma anche e soprattutto all’etica.



E’ perciò molto importante, come consumatori consapevoli, scegliere i vestiti non solo sulla base di estetica, praticità e prezzo, ma valutarne tutti gli aspetti, compresi come, dove, con cosa, da chi e in quali condizioni è stato fatto l’abito che stiamo acquistando e che ci metteremo addosso. Conoscere è il primo passo per poter scegliere consapevolmente!



Noi, come consumatori, abbiamo un enorme potere, perché il mercato si basa sulla legge della domanda e dell’offerta e quindi possiamo influenzare l’offerta, cambiando la nostra domanda!






Nota: le informazioni sopra riportate sono in parte tratte dal libro “Vestiti che fanno male” di Rita Dalla Rosa, che vi consiglio di leggere per gli approfondimenti.

8 commenti:

  1. Interessantissimo post. Grazie. =)
    Daniela

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  2. Molto interessante e approfondito il tuo post. Sono arrivata qua dal linky party della Vale e mi aggiungo ai tuoi followers. Da poco mi sto avvicinando ad un modo di vivere, più consapevole, più salutare e più responsabile e ho ancora molto da imparare. Il tuo post mi ha fatto riflettere.

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    1. Ciao Lisa,
      benvenuta nel mio blog! Sono felice del tuo commento perchè quello era proprio il mio intento nello scrivere il post...far riflettere! Spesso le scelte che facciamo tutti i giorni le facciamo inconsapevolmente e senza riflettere troppo sulle conseguenze che provocano, ma penso che un passo alla volta possiamo tutti migliorarci un po', rendendoci conto che ogni nostra scelta ha ripercussioni sul mondo circostante.
      Grazie per il tuo commento.
      Ciao
      Serena

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  3. Wow! In effetti fa riflettere.. personalmente ho un armadio davvero microscopico, ho sempre preferito destinare le mie finanze ad altro, soprattutto libri, alimentazione, viaggi.. Quando proprio mi voglio togliere qualche sfizio preferisco le bancarelle o negozi dell'usato, visto che più facilmente trovo cose di mio gusto.. un po' retro insomma (che fa più figo che dire 'antiquato!!!). Un bacione Serena, grazie per la riflessione che hai condiviso!

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    1. Anche io preferisco spendere soldi in libri, cibo di qualità per la mia famiglia (pelosa e non) e corsi vari....sì purtroppo in Italia gli abiti usati non sono molto ben visti, viene interpretata come una cosa per persone indigenti, invece secondo me, oltre a "salvare la vita" di abiti ancora in perfetto stato, si possono trovare cosine carine come dici tu retro o vintage (sì, fa più figo!!! ahahaahhha)
      Grazie a te per avermi letta
      Ciao
      Serena

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  4. Sai Serena, ho lavorato per una ditta che produce indumenti intimi di cotone certificato, ed ho letto molto riguardo la produzione del cotone e della pericolosità di quel che indossiamo ogni giorno e nemmeno ce ne accorgiamo se non ci informiamo prima! Il tuo articolo è esaustivo e completo, in sintonia con quel che conoscevo.
    Roby

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    1. Grazie Roby,
      già....si pensa che siccome i vestiti stanno "fuori" di noi non ci possano fare male, ma la pelle è il più esteso organo del nostro corpo ed assorbe le sostanze con le quali viene a contatto, portandole all'inteno!
      Buonanotte
      Serena

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